16 ottobre 2007

La madre ha spinto la figlia giu' dal balcone



Bimba muore cadendo dal balcone La madre confessa: "L'ho spinta io"

"Melania si era arrampicata su una sedia per vedere il padre che tornava a casa dal lavoro, lei le aveva detto più volte di scendere ma la bambina non aveva obbedito e l'ha spinta giù."
Proprio vero che le violenze sulle donne avvengono tra le mura domestiche.

Due begli articoli sul Giornale di oggi.

La mia gioia di essere papà

di Giordano Bruno Guerri - giovedì 18 ottobre 2007, 07:00

Fra i cento riti di cui - ormai - è fatta la mia giornata, uno dei più dolci è la mattina presto, quando esco per la colazione e l'acquisto dei giornali spingendo la carrozzina del mio bambino. Nicola Giordano Guerri ha dieci mesi e è poco più lungo del suo nome, ma è già convinto di essere padrone del mondo, perché niente gli fa credere il contrario. Appoggiato sul davanzalino del suo trono, che conduco cercando di evitare cacche e buche, si guarda intorno soddisfatto. Sa già cosa lo aspetta: dopo il giornalaio, il posto più assolato del bar d'angolo e un muffin, di cui è ghiotto.
Mentre lo imbecco - scegliendo le briciole più soffici, misurando la sua soddisfazione fatta di gridi belluini - riesco anche a dare un'occhiata alle prime pagine dei quotidiani. Ma la notizia che mi ha gelato il sangue, ieri, non era in prima pagina. Che una mamma scaraventi la figlia di cinque anni giù dal quinto piano incide nelle nostre vite meno dell'aumento delle bollette, delle tasse, delle rotture di scatole della politica e dell'antipolitica. Ma ferisce molto di più la nostra coscienza, la nostra più intima essenza di esseri umani, che è animalesca prima che razionale e ci impone che primo dovere della specie è proteggere i cuccioli.
Oggi lo so. Ho avuto questo mio primo e unico figlio a cinquantacinque anni, trascorsi badando soltanto a me, a quello che mi piaceva e a quello che mi dispiaceva, a quello che mi interessava e a quello che non mi interessava. Privo di religiosità, ero il centro del mio universo, unico scopo e sbocco della mia vita. Credevo fosse divertente, e lo era davvero. Ma soltanto divertente, niente di più e niente di paragonabile alla pienezza di vivere con, per e in funzione di qualcun altro. Prima ancora del figlio, l'incontro con una donna che ti fa dire «Questa volta è per sempre». E poi un bambino, che per sempre lo è di sicuro, qualunque cosa accada, nel bene e nel male. Un figlio, se lo sia ama davvero (ma come si può non amarlo davvero?) non è soltanto la prosecuzione della tua vita. È prima di tutto, una vita, sua e soltanto sua, che ti viene affidata perché tu la aiuti a crescere forte rigogliosa, il più possibile aperta a dare e ricevere felicità. La grandezza dell'amore paterno e materno sta proprio nel dare senza aspettarsi niente in cambio. La sua meraviglia sta nel fatto che, invece, in cambio ricevi più di quanto hai dato, perché basta un sorriso di quella bocca sdentata e di quegli occhi purissimi, che non celano niente e dicono tutto.

Per un genitore un figlio piccolo «è tutto» - sia pure fra virgolette, fra i mille problemi quotidiani - perché tu sei tutto per lui, e senza virgolette. Ora lo so, ché per la prima volta in vita mia non vedo l'ora di tornare a casa. Ora lo so, ché quando mi rivede, anche solo dopo poche ore, Nicola Giordano urla di gioia e tende le braccine, vibranti come un frullatore per l'eccitazione. E ogni volta penso quanto siamo fortunati, Nicola e io, perché lavoro a casa e le nostre reciproche assenze sono così brevi.
Non erano così fortunati Melania, cinque anni, e suo padre Angelo, operaio, che tornava a casa la sera, dopo un'intera giornata di lavoro. Mi è facile immaginarlo, Angelo, camminare a passo svelto e felice verso casa, dove avrebbe trovato la sua donna e la sua bambina festante. Melania infatti lo aspettava sul balcone, tutta un fremito e uno squittio, in piedi su una sedia per vederlo prima, incontenibile nei suoi gridi di felicità piena. È stato allora che la mamma l'ha spinta di sotto, venti metri, per non sentirla più. Paradossalmente nessuno la può capire meglio di un genitore, ma nessuno la può capire meno di un genitore. Io stesso - come tutti, sono sicuro - ho provato brividi di esasperazione durante i primi mesi di Nicola, per i suoi pianti incontenibili e inconsolabili, prima le coliche, poi i denti. I ricordi più brutti di quelle lunghe ore, di quelle notti in bianco, però, sono i pensieri che mi attraversavano la testa, altrettanto incontenibili e inconsolabili dei suoi pianti: «Chi me l'ha fatto fare». «Mai più». E il peggiore di tutti, il più vergognoso: «Potessi tornare indietro». Vergognoso perché è il rinnegamento egoistico, sia pure irrazionale e momentaneo, di ciò che sai essere la cosa più bella e preziosa che la vita ti ha dato. Lo si supera, d'istinto, con un amore che viene dalla carne, prima ancora che dal cuore e dalla mente. E leggendo, parlando con i medici, sapendo che è una reazione normale, quasi sana, di autodifesa. Purché tutto si fermi lì e tu continui a cullare con dolcezza e pena la vita della tua vita.

Il mistero di essere mamma

di Michele Brambilla - giovedì 18 ottobre 2007, 07:00

La notizia era già terrificante di suo, ma un particolare l’ha resa ancor più straziante. È l’immagine - che possiamo solo immaginare - di lei, di Melania, che in piedi su una sedia aspetta il papà alla finestra, ne attende lo sbucare sulla via, ne assapora già l’abbraccio, i baci, le feste, la favola raccontata sotto le lenzuola rimboccate. C’è un momento più bello di questo, nella nostra ahimè quante volte grigia vita quotidiana? No che non c’è. Conserviamo nel cuore perfino la memoria di quando eravamo noi i bambini, e il nostro papà l’eroe che ci riempiva la vita; e ora che siamo genitori, quel vedere i nostri bambini alla finestra che si illuminano all’improvviso agitando la manina, è - come dire - il momento che in fondo ci salva, ci redime perché spazza via d’un tratto tutte le balle che abbiamo in testa.
La sera - maledetto mestiere - torno tardi a casa. I miei figli dormono già. Proprio l’altro ieri avevo appeso dietro la scrivania il biglietto che ho trovato l’altra notte sulla tavola: «Papi le noci sono per te, un bacione da Martino, butta i gusci dove li ho buttati io cioè qua», e c’è una freccia che indica un vassoio di cartone lì a fianco, la scrittura è quella della seconda elementare, tra un paio d’anni anche Melania avrebbe saputo scrivere così. No davvero, non c’è momento più intenso di questo dell’abbraccio tra un figlio e un papà che ritorna.
Eppure è stato durante quell’attimo di paradiso che Melania è stata spinta giù dalla mamma. Com’è possibile?, ci chiediamo tutti. Anzi lo urliamo: com’è possibile uccidere la vita della nostra vita?
Credo che siamo soprattutto noi papà a non saper rispondere. Sì, spingiamo il passeggino e allattiamo con il biberon. Ma non siamo stati noi a essere diventati, all’improvviso, due persone invece che una. Non siamo stati noi a portarlo in grembo, a partorirlo con dolore, a vedere che una parte di sé diventa altro da sé.
Noi giornalisti siamo maestri, purtroppo, a banalizzare ogni cosa. Così anche ieri abbiamo trovato, e messo nei titoli, la parolina che spiega tutto: depressione. Ma che sciocchezza. La depressione è una brutta bestia, ma con mille teste, e se tutti coloro che da quella bestia vengono azzannati arrivassero a uccidere, la terra sarebbe spopolata. «Depressione»: è la parola-totem che usiamo per sbrigare frettolosamente troppe pratiche, per spiegare un tanto al chilo il Male che misteriosamente e puntualmente si affaccia e colpisce.

Medea era femmina, e son le mamme a uccidere i loro figli. Una mamma sa quale terribile potenzialità ci sia dietro alla frase con cui a volte si sgridano i figli: «Come ti ho fatto ti disfo». Che ne sappiamo noi maschi? Che cosa possiamo capire di quel che accade già al momento del test di gravidanza, quando la donna esce dalla sua dimensione di sempre ed entra in un’altra, parallela? Non bastano le carezze e i regali, non bastano i completini ricamati a mano, non basta nulla di ciò che possiamo sforzarci a fare: da quel momento la donna è sola.
C’è anche la gioia della maternità, si dirà. Certo. Se così non fosse, far figli non sarebbe la cosa più naturale di questo mondo, e le mamme assassine sarebbero la maggioranza, e non una per fortuna esigua minoranza di cui si occupa solo la cronaca nera. Certo che c’è la gioia. Ma la vita è strana, tutto si svolge tra le due polarità opposte, ogni giorno contiene la notte, il sole contiene la luna, il dolore contiene la gioia e la paura contiene la fiducia. Ed è quando in una mamma prevale il polo negativo che la distruzione si vendica della creazione.
E poi. Lungi da noi la sociologia d’accatto. Ma siamo sicuri che non ci sia, dietro al ripetersi di tanti casi come quello di Melania, il segno di una delle follie del nostro tempo? Leggo su una rivista d’ostetricia, D&D, che «la donna oggi è sola nella sua maternità (...) incontra periodicamente un ginecologo più o meno asettico che in 10-15 minuti ne sonda la biochimica e la continenza, nessuno risponde a domande e dubbi tipici del percorso. La nascita del figlio non è considerata l’apice di una storia d’amore ma un percorso insidioso e rischioso da congelare e mettere sotto il controllo delle macchine».
Ma sì: ci illudiamo che sia tutta una questione di macchine, di tecnologia, di biochimica. Ma l’uomo - e il mistero della donna che l’uomo è chiamata a ri-crearlo continuamente - sono cose ben più complesse, a volte più drammatiche.
Michele Brambilla

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"Mamma voleva ammazzarmi con un coltello"

A sette anni costretta a fuggire di casa. Salvata all’una da una volante del 113 Ines, 7 anni, è fuggita scalza dall’ennesima lite dei genitori
22/10/2007 (12:16)
LODOVICO POLETTO
TORINO
Scalza, con addosso il pigiamino, Ines vagava sola, l’altra notte, sul marciapiede di via Adamello. Era quasi l’una. Freddo, poche auto in giro. Buio pesto. La signora che con il cane al guinzaglio s’è incuriosita: a quell’ora, di notte, in quelle condizioni, e sola, Ines non era certo una presenza normale.

Preoccupata, angosciata, ha sfilato dalla tasca del giubbotto il cellulare e ha chiamato il 113: «...non so se faccio bene... non capisco cosa stia facendo quella bambina... se potete mandare qualcuno... avrà sette o otto anni...».

Alla stessa ora, a un chilometro da lì, i vigili del fuoco stavano montando i fari per illuminare il giardino di un elegante complesso residenziale: guardiano all’ingresso, campanelli in gran parte senza nome. Cancellata. Uno di loro, con in mano la termocamera stava settando i parametri: «Se c’è qualcuno nascosto in mezzo a questi arbusti lo vediamo subito. Questo strumento rileva il calore dei corpi». In quegli attimi di ansia, di lampeggianti blu e di sirene, in tanti l’hanno pensato, ma pochi hanno avuto il coraggio di dirlo, e senza morbosità, cercando soltanto di esorcizzare un pensiero bruttissimo: quello del cadavere di Ines riversa tra gli sterpi. Lo hanno fatto accompagnando con lo sguardo i gesti rapidi e vani dei poliziotti delle volanti, intenti a controllare ogni anfratto di questo complesso residenziale. Alla ricerca di Ines.

Poi una radio ha gracchiato: «...via Adamello... una bambina sola e scalza... ferita...». I poliziotti sono partiti: tre minuti, un chilometro di strada a tutta velocità, con l’adrenalina nelle vene e il motore dell’auto che urla.

Tre minuti e Ines è stata «salvata». L’hanno portata all’ospedale Martini: piangeva disperata e stravolta, come solo sanno esserlo a sette anni i bambini. Lucciconi agli occhi e manine gelate hanno svelato una storia che finisce più o meno così: «Mio papà e mia mamma litigavano. Poi lei ha preso un coltello. Me lo ha dato qui, in testa. Gridava che mi voleva ammazzare». Lei ha infilato le scale ed è fuggita nella notte, sola e scalza.

Dodici ore dopo la fuga Ines è ancora in ospedale. La ferita non è grave, ma i medici hanno preferito tenersela lì, in Pediatria. Anche la mamma è ricoverata, ma in un altro ospedale. Il papà, un manager, ha messo a verbale tutta la storia dell’altra notte. Parla di litigi, di alcol e di follia. Lui è un quarantenne dirigente d’azienda. Uno che ha viaggiato tanto per lavoro, al quale la vita ha dato molto: denaro, una bellissima casa, una moglie che lo ha reso padre.

«Litigavamo, mia moglie era fuori di sé. Aveva un coltello in mano, di più non so...». E il ferimento di Ines? «Non ho idea, non ricordo, non l’ho vista». E non ha neppure visto Ines scappare nella notte. Non se ne è accorto fino a quando non è arrivata la polizia, che lui stesso aveva chiamato: «Mia moglie mi ha chiuso fuori casa, non posso rientrare».

Fino a quel momento nessuno si era accorto di nulla: non il papà, non la mamma, ormai completamente fuori di sé, non i vigili. Ci sono voluti diversi minuti prima di scoprire la verità, prima che partissero le ricerche della bambina. Corse affannate sulle scale, nei garage, voci nella notte nell’enorme giardino di quest’isola ricca ed elegante «Ines, Ines dove sei... Ines». E ancora torce elettriche, telefonate, i vicini che si affacciano ai balconi, scendono, guardano i poliziotti che scrutano intorno nella notte, cercando di cogliere un rumore, un’ombra, un oggetto.

Per fortuna non è finito tutto in tragedia. Il racconto fatto da Ines, per ora, non ha alcun valore legale. Dovrà ripeterlo nel corso di un’audizione protetta, davanti a un magistrato, alla presenza di uno psichiatra infantile. Soltanto allora potrà ricostruire come sono andate le cose. Cercare di ricordare anche le parole della mamma, quelle del papà, i gesti di quella notte. Tutto nel modo più preciso possibile, fino a quando lei, ostaggio di un terrore assoluto, è fuggita di casa.
Alle 3 della notte di sabato Ines è stata portata nel reparto di Pediatria. Un’infermiera le è stata accanto: «Adesso fai la nanna angioletto». E lei, finalmente, ha sorriso.

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