11 ottobre 2007

Risé sull’educazione in famiglia: «Prima cambino i genitori»




(Intervista a Claudio Risé, a cura di Gioia Palmieri, da “Il Giornale del Popolo”, 6 ottobre 2007, www.gdp.ch)
Continua la nostra riflessione sull’educazione dei giovani a partire dall’ultima lettera pastorale del Vescovo. Prendiamo spunto da uno dei suoi capitoli, “La famiglia”, per approfondire le tematiche legate ai rapporti tra figli e genitori.
In una lunga intervista, lo psicoterapeuta milanese Claudio Risé chiarisce il significato del temine “educazione” e ne mostra le sue basi fondamentali; precisa quali sono i rispettivi ruoli e compiti educativi del padre e della madre e spiega le origini e le conseguenze da cui oggi derivano gran parte dei disagi dei giovani.

Un luogo in cui realizzare sé stessi e il proprio destino

«Di fronte allo smarrimento di molti genitori oggi per l’allontanamento dei propri figli, che non si riconoscono più nei valori dei padri e ricercano inquieti altri orizzonti (…), ho pensato di riproporre la domanda angosciata di Maria e Giuseppe per la perdita di Gesù: “Figlio, perché ci hai fatto questo?”». Così scrive il vescovo nella sua ultima lettera pastorale dedicata all’educazione dei giovani.
Quanto accade nelle famiglie, ma anche in tutti gli ambiti in cui si gioca un rapporto fra chi insegna e chi apprende, sembra dimostrare che gli adulti stiano abdicando alla loro responsabilità educativa o che, nella migliore delle ipotesi, siano arroccati su schemi ormai inadeguati alle domande del nostro tempo. E i giovani, privi di una proposta positiva con cui affrontare la quotidianità della vita e con cui misurarsi, diventano scettici e cinici quando non addirittura violenti.
Ne abbiamo parlato con il dottor Claudio Risé, psicoterapeuta e psicologo italiano.

Ampi consensi sull’emergenza educativa giovanile. Grandi dissensi su cosa significhi educare. Mettiamone in chiaro il significato.
Simone Weil diceva che educare significa dare dei moventi, delle motivazioni. In assenza di questo l’individuo non è più in grado di sviluppare le energie necessarie per portare avanti la propria vita.
Il carattere vitale dell’esperienza educativa deriva dal fatto che l’essere umano, attraverso essa, trova le motivazioni per realizzare dei progetti di vita. Perché questo avvenga occorre che la famiglia sia consapevole non solo dell’importanza dell’azione educativa, ma soprattutto del suo essere questa spinta verso il compimento del proprio destino.
In altre parole, educazione non significa solo offrire generiche e opportune norme di comportamento e buon senso (servono anche quelle), ma proporre ai giovani motivazioni che riguardano il senso dell’esistenza, il significato del loro vivere.

Allora veniamo al metodo. Come si fa? Come si educa?
Dobbiamo iniziare dagli adulti. Sono loro che devono riscoprire in sé stessi il significato dell’esperienza educativa, la passione per la vita e i propri progetti. È necessario innanzitutto nei genitori un ritorno di entusiasmo e di coscienza per questa missione.
È importante però fare attenzione alle parole: l’origine etimologica di “entusiasmo” deriva da uno stato ben preciso, cioè “essere pieni di Dio”. Quindi, ciò che consente di fornire quelle motivazioni, che sono il centro dell’azione educativa, è una risposta alla domanda di senso sulla nostra vita, la quale coincide direttamente con l’esperienza religiosa.
È necessaria una conversione nell’adulto e nella famiglia affinché l’operazione educativa si realizzi o possa di nuovo avvenire. Fatto questo passaggio, la difficoltà successiva è la trasmissione di questa coscienza al giovane che deve sempre partire dall’amore: il figlio deve sentirsi amato e deve sentire che l’impegno educativo dei genitori non fa parte di un freddo progetto di sviluppo, ma di un amore che l’adulto ha per lui.

Oggi, l’alternativa più allettante per un giovane pare invece essere la non-appartenenza, la liberazione dai vincoli affettivi, la loro totale assenza…
Questa assenza non è libertà, ma solitudine. Ai doveri verso gli affetti, verso i quali crede di non avere più vincoli, il giovane ne sostituisce immediatamente altri: una serie di comportamenti obbligati o semiobbligati, coatti, che assume nei confronti del gruppo, del collettivo sociale, e dei loro riti. Nei confronti di questi “collettivi amicali” i giovani non solo non si sentono liberi, ma ne sono pesantemente condizionati attraverso comportamenti o stereotipie che vanno dall’abbigliamento al linguaggio, al gestire la propria vita in un certo modo.
È una falsa libertà che si crea sostituendo agli affetti naturali autorità proposte dal collettivo sociale e dal sistema di comunicazione, che alla fine portano alla dipendenza.

Quali sono i compiti specifici del padre e della madre nel rapporto educativo con i propri figli?
Il padre, come spiego nei miei libri, mette in moto il processo naturale che porta alla nascita della vita del figlio. Ciò ne fa, simbolicamente e psicologicamente, il testimone e il protettore di tutti gli aspetti dinamici della vita del figlio. È colui che presiede al “movimento” del ragazzo/a, cioè alla capacità di passare da una fase all’altra della crescita, al darsi dei progetti e realizzarli. Nel caso in cui non lo faccia, perché inconsapevole o assente, vediamo emergere il fenomeno oggi diffuso nei giovani della “stagnazione”: un arresto nel processo di sviluppo.
L’altro aspetto decisivo del ruolo paterno è quello di separare il giovane dalla madre, alla quale il figlio è unito da una simbiosi psicologica. Il padre deve presiedere affettuosamente a questa necessaria separazione. Questo distacco non è gradito né dal figlio né da sua madre e il padre diventa quindi anche la figura da cui l’uomo impara ad accettare la ferita, a sopportare la frustrazione, a caricarsi del sacrificio che occorre fare per maturare. Non è piacevole, ma è legato a quel processo vitale che consente di affrontare gli ulteriori passaggi di crescita.

E la madre?
La madre deve collaborare alla separazione, ma ha un’altra funzione essenziale che è quella dell’accoglimento amoroso del figlio e del soddisfacimento dei suoi bisogni. Sono necessità profonde che se non vengono soddisfatte danno luogo a manifestazioni gravi: disturbi alimentari, fenomeni di somatizzazione, crisi di dipendenza.
Gran parte della dipendenza da sostanze e, in generale, tutto il quadro delle patologie narcisistiche derivano da frustrazioni primarie nelle prime fasi della vita, da queste mancate necessità di accoglimento da parte della madre.

Nelle sue pubblicazioni Lei segnala che se il padre è il grande “assente”, la madre è la grande depressa…
La madre è la più colpita dalla depressione e dai corrispondenti fenomeni opposti, euforici e maniacali, di apparente iper-valutazione di sé, che spesso si rovesciano in improvvise svalutazioni e abissi depressivi.
I figli soffrono di entrambe le “facce” della condizione femminile di oggi, le quali impediscono un normale processo educativo e un tranquillo sviluppo affettivo.

Lei sostiene, argomentando con diverse analisi storiche e sociali, che a partire dal Settecento il padre ha cominciato a sottrarsi dalla sua figura educativa e autoritaria.
Oggi, come si può trasformare questa situazione consentendo al padre di recuperare il suo ruolo originale all’interno della famiglia?

Aiutando il padre a riscoprire il senso della sua funzione educativa. Lui agirà quindi in modo diverso e cosciente riassumendo il suo ruolo di proposta all’interno della famiglia. Ruolo spesso abbandonato, e sostituito con quello di “manager familiare”, di produttore e amministratore di risorse.
Come segnalo nei miei libri sul padre, questa consapevolezza sta emergendo, anche se lentamente rispetto al necessario: ogni anno aumentano i casi in cui i padri, in caso di separazione, chiedono l’affidamento dei figli; tendono ad essere sempre meno gli uomini che prendono l’iniziativa della rottura (mentre sempre più sono le donne a farlo).
È necessario che questo processo di recupero del significato della figura paterna si diffonda tra gli uomini e non venga ostacolato dalla società che invece tende a vedere l’istituto familiare come provvisorio, come testimoniato da una recente proposta di una deputata tedesca di costituire la “famiglia a termine”: il matrimonio decade dopo un tot di anni e deve essere rinnovato, come un contratto d’affitto, per continuare ad esistere.
È quindi necessario un cambiamento, oltre che nei padri e nelle madri, nella classe politica.

La situazione familiare più diffusa è quella della separazione, del divorzio. C’è chi in questo per comodità vuole vedere il “bicchiere mezzo pieno” e sorride coniando termini come “famiglie allargate” o, appunto, “famiglie a termine”. Ma la separazione ha degli effetti gravi sul figlio…
L’effetto è potenzialmente schizoide, cioè quello di una rottura dell’unità dell’io personale proprio perché la relazione tra padre e madre, fra il maschile e femminile, è alla base della rappresentazione dell’unità psichica. La rottura familiare infrange l’esperienza di unità personale e quindi pone le basi per un vissuto che porta, nel peggiore dei casi a una scissione psichica e nel migliore dei casi a una fragilità, a un vuoto affettivo.

Una delle cause della diffusa violenza fra i giovani…
Sì, è uno degli elementi più gravi, perché è una prima ferita molto forte che suscita nel giovane una reazione di opposizione, ma la violenza non dipende solo dalla separazione dei genitori.
Ci sono molti altri fattori: prima di tutto la carenza educativa che non insegna loro il significato dell’aggressività che è un dato naturale della personalità individuale. Quindi non insegna cosa farne, come domarla e dirigerla verso fini produttivi e non distruttivi (o autodistruttivi). Questo è un altro aspetto fondamentale dell’esperienza educativa e quando manca crea forti disagi. Dobbiamo inoltre ricordare che purtroppo un ragazzo su tre (dato italiano) consuma cannabis e uno degli effetti di questa droga, constatati in tutto il mondo, è lo scatenamento di episodi di aggressività incontrollata.

«Nessun uomo è un’isola», ricorda il nostro Vescovo. Un giovane senza famiglia e senza una comunità che lo accoglie è un disadattato.
Abbiamo visto l’importanza del ruolo dei genitori, ma cosa s’intende per “comunità” e quale è il suo compito?

Non è il generico gruppo o il branco che si costituiscono sulla base di mode e comportamenti superficiali. La comunità è un luogo, fatto di persone nella quale si condividono e si fanno esperienze profonde, sulle quali si fonda l’identità.
Dobbiamo stare però attenti perché il giovane e l’individuo della post-modernità vivono una situazione di profonda solitudine, ma nello stesso tempo di apparente e fortissima socializzazione. I giovani si muovono esclusivamente all’interno di esperienze collettive, di massa. Non sono dei “lupi solitari”, sono inseriti all’interno di gruppi che non costituiscono una comunità proprio perché si sottraggono normalmente a quella domanda di esperienza di senso, e in genere a tutte le domande sul senso dell’esistenza, le cui risposte sono fondative di identità e come tali fondano una comunità.

«Un aspetto importante della dimensione dinamica delle persone è l’educazione alla sessualità», scrive il nostro Vescovo.
Oggi si cerca di convincere i figli e le famiglie che l’orientamento sessuale è libero, che si può scegliere “à la carte” e che il passaggio successivo è quello di comunicarlo senza paure…
Questo rischia di essere un approccio molto violento perché non tiene conto di una caratteristica umana fondamentale che segna l’infanzia e l’adolescenza: quella di essere caratterizzate da una graduale e incerta ricerca della propria identità sessuale, la quale si manifesta di norma attraverso un lungo processo di maturazione.
Come sa bene l’antropologia, la dotazione istintuale dell’uomo è debole, e deve essere accompagnata da una lunga e rispettosa opera di accompagnamento culturale, che fa appunto parte del processo educativo. L’uomo ha sempre riconosciuto questa realtà, tutelando sia la condizione infantile che quella adolescenziale, per consentire quella maturazione sessuale ed affettiva che consiste nella graduale consapevolezza di appartenere al proprio sesso, e nella scoperta dell’altro, cogliendo il significato profondo di maschilità e femminilità.
Ignorare questo, fornendo un’anticipata proposta, un menù di comportamenti sessuali “equivalenti” è una grande violenza nei confronti del giovane perché gli nega il costitutivo processo di identificazione del proprio genere e quindi l’assunzione della propria identità non solo sessuale, ma psichica, che si realizza in un graduale processo di maturazione fisica, affettiva e psicologica.
Proporre ai bambini e agli adolescenti di scegliere il proprio genere quando gli pare e come gli pare taglia alla base questo processo di sviluppo, sostituendovi una decisione di tipo intellettuale, ideologica. Invece lo sviluppo sessuale si realizza in una maturazione complessiva, che ha bisogno del tempo di realizzarsi.

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